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Violazione dell'obbligo di esclusività e truffa ai danni dell'ASL

Violazione dell'obbligo di esclusività e truffa ai danni dell'ASL

A un medico dipendente da una struttura ospedaliera pubblica viene contestato di avere posto in essere una truffa aggravata e continuata (artt. 640 n. 2 c.p. e 81 c.p.) per avere omesso di comunicare all'ASL l'esercizio di attività professionale privata extramoenia così percependo illegittimamente l’indennità di esclusiva.

Il sanitario in primo grado viene ritenuto colpevole del delitto contestatogli e condannato alla pena ritenuta di giustizia.

In secondo grado viene confermata la responsabilità del medico per il delitto di truffa aggravata ma viene esclusa la continuazione, con conseguente riduzione della pena inflitta. 

Il sanitario ricorre in cassazione protestando la propria innocenza deducendo, tra l’altro, di non avere mai indotto in errore l'amministrazione di appartenenza in ordine al suo rapporto di esclusività poiché aveva esercitato una limitata attività privata in intramoenia allargata presso il suo studio e comunque l’inesistenza del dolo (elemento soggettivo del reato contestagli) poiché la condotta occasionalmente da lui posta in essere rappresenta solo un atteggiamento superficiale di natura colposa.

La Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la recente sentenza n. 24127/2023, depositata il giorno 05.06.2023, dichiara inammissibile il ricorso e condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e anche della somma di 3.000,00 euro alla cassa delle ammende.

La Corte, in particolare, osserva che le censure che si riferiscono alla configurazione del delitto di truffa aggravata sono generiche e manifestamente infondate perché i giudici di merito hanno ricostruito nel dettaglio la condotta posta in essere dall'imputato e le hanno attribuito una corretta qualificazione giuridica, precisando che la truffa consiste nell'avere omesso di comunicare all'ASL e di richiedere l'autorizzazione per lo svolgimento di una attività non in regime di esclusività, a nulla rilevando la circostanza che siano state o meno rilasciate ricevute in favore dei pazienti privati dell'imputato che nella sua veste di medico ospedaliero non avrebbe potuto e dovuto visitarli, proprio in quanto legato al vincolo di esclusività con il proprio datore di lavoro; che pertanto la sua condotta ha rilevanza penale in quanto ha percepito con frode l’indennità conseguente all'avere optato di svolgere le sue prestazioni in regime di esclusività con la struttura pubblica.

Quanto all'elemento soggettivo, osserva la Suprema Corte che è evidente che l'imputato era a perfetta conoscenza del suo obbligo di svolgere l'attività medica solo in regime di intramoenia e non privatamente, sicché nel momento in cui percepiva dall'ospedale l'indennità di esclusività era animato da un intento fraudolento e cioè dalla volontà di perseguire un ingiusto profitto con danno per l'ente da cui era dipendente con patto di esclusiva.

A cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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