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Soggetto affetto da Corea di Huntington e compatibilità della sua detenzione con i principi costituzionali

Soggetto affetto da Corea di Huntington e compatibilità della sua detenzione con i principi costituzionali

Il Tribunale di sorveglianza dichiara inammissibile l'istanza proposta da un uomo diretta alla concessione della detenzione domiciliare (non essendo decorsi tre anni dalla revoca della stessa misura alternativa) e rigetta l'ulteriore istanza, presentata dal medesimo soggetto, volta alla concessione del differimento della pena per motivi di salute ex artt. 146, comma primo, n. 3), e 147,comma primo, n. 2), cod. pen.

Il Tribunale, in merito alla seconda istanza, ritiene che le condizioni di salute del soggetto siano compatibili con il regime detentivo non necessitando di cure e trattamenti che non possono essere prestati in carcere in quanto dalla relazione sanitaria redatta dalla competente azienda sanitaria risulta che il condannato, affetto da Corea di Huntington (patologia di tipo neurologico a carattere ingravescente), si trova in condizioni di salute compatibili con lo stato di detenzione e tali da consentire adeguate cure nell’istituto carcerario dove viene costantemente seguito da personale medico e infermieristico e altresì costantemente e continuativamente assistito da altri detenuti nel compimento degli atti, anche elementari, della vita quotidiana.

Il difensore dell’interessato ricorre in cassazione lamentando che il Tribunale ha trascurato quanto evidenziato dalla suddetta relazione sanitaria circa la necessità per il soggetto di un'assistenza continua ai fini del compimento di atti elementari della vita conseguente alla sua dipendenza da personale anche di tipo non sanitario e che, pertanto, risulta in essere una situazione al limite con lo stato di detenzione.

La Corte di Cassazione, prima sezione penale, con la recente sentenza n. 16815/2023, depositata il giorno 20/04/2023, annulla il provvedimento impugnato, rimettendo gli atti al Tribunale per un nuovo più approfondito giudizio sull’accettabilità della detenzione per un soggetto gravemente malato e impossibilitato a espletare in autonomia le attività vitali, come è pacifico nella fattispecie.

Osserva, in particolare, la Suprema Corte che ai fini della valutazione sull'incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, occorre verificare non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi a esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato, comparativamente con la sua pericolosità sociale; che, inoltre, il giudice di sorveglianza deve tenere specificamente conto dell’esistenza di un quadro patologico particolarmente grave per evitare che la privazione dello stato di libertà possa essere causa di una sofferenza aggiuntiva di entità tale da superare i limiti della umana tollerabilità, così ledendo il fondamentale diritto alla salute del detenuto (art. 32 della Costituzione) e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 della Costituzione); che nel caso di specie il Tribunale non si è attenuto a questi principi perché nella sostanza si è limitato a constatare la concreta possibilità di cura della patologia del detenuto nel luogo di detenzione, ma nulla ha osservato, neppure in punto di pericolosità sociale del soggetto, sulla compatibilità dello stato di detenzione carceraria con il principio di umanità della pena.

A cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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