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Nodulo maligno in tesi non rilevato radiologicamente

Nodulo maligno in tesi non rilevato radiologicamente

Una donna cita in giudizio un I.R.C.C.S. pubblico e un centro privato di radiologia sostenendo che, in seguito alla mancata colposa rilevazione di un nodulo maligno da parte dei radiologi ivi operanti, aveva subito dei danni essendosi dovuta sottoporre successivamente a un intervento chirurgico più invasivo.

La sua domanda viene respinta sia in primo che in secondo grado e, quindi, l’interessata ricorre in cassazione sostenendo l’erroneità della decisone d’appello, tra l’altro, per non avere correttamente valutato un referto da Lei prodotto, per avere ingiustamente escluso l’esistenza del nesso di causalità tra l’operato dei medici delle due strutture e il danno patito e per avere escluso la lesione del suo diritto all’autodeterminazione.

La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la recente sentenza n. 12411/2023, depositata il 09.05.23, rigetta il ricorso avanzato dalla paziente confermando così la correttezza della decisione impugnata.

La Suprema Corte, in particolare, osserva che il referto prodotto, proveniente da un centro radiologico privato, è un documento privo di valore di atto pubblico, liberamente valutabile dal giudice anche perché le considerazioni ivi contenute sono solo manifestazioni di opinioni non vincolanti; che, quand’anche il documento prodotto avesse il valore di atto pubblico, come sostiene la ricorrente, non farebbe stato né sarebbe assistito da alcuna fede privilegiata quanto alla valutazione ivi incorporata compiuta dal medico sull’esame condotto da altri anni prima; che in sede di legittimità non è consentita una diversa rilettura dei fatti accertati in sede di merito; che, infine, il giudice d’appello ha correttamente escluso la dedotta violazione del principio del consenso informato in quanto dallo stesso contenuto delle censure formulate fin dal primo grado risulta con chiarezza che la signora era stata adeguatamente informata della portata del primo intervento proposto e della necessità di attendere il successivo esame istologico per verificare la natura della formazione asportata; che, quindi, l’interessata si sottopose volontariamente all’intervento perché sperava di risolvere definitivamente con esso il suo problema di salute; che, in realtà, quello che la ricorrente non ritiene accettabile è che il primo intervento nulla ha risolto perché la formazione asportata non era maligna e che a distanza di pochi anni si sia dovuta operare di nuovo, con un intervento ancor più demolitivo che ha comportato anche lo svuotamento del cavo ascellare; che, quindi, la paziente sospetta che i medici hanno mal eseguito il primo intervento, operando sul quadrante sbagliato del seno e non rimuovendo la formazione maligna che si era già insinuata nell’altro quadrante, esprimendo un convincimento che è stato però ripetutamente smentito dal giudice di appello, con un accertamento in fatto non suscettibile di essere riesaminato in sede di legittimità.

A cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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