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Medico accusa un collega di avere provocato lesioni personali nel corso di un litigio sul posto di lavoro in ospedale

Medico accusa un collega di avere provocato lesioni personali nel corso di un litigio sul posto di lavoro in ospedale

Un medico accusa un collega di essere entrato nel suo ambulatorio visibilmente alterato alzando la voce al suo indirizzo e proferendo affermazioni offensive nei suoi confronti, così provocando lesioni personali consistite in sincope e collasso, giudicate guaribili in otto giorni.

Il Tribunale, ritenendo inattendibile la deposizione della presunta danneggiata e non provate le lesioni riferite, assolve il medico imputato con la formula “perché il fatto non sussiste”.

La Corte d’Appello, su impugnazione del Pubblico Ministero (P.M.) e della parte civile, riforma la sentenza di primo grado assolvendo l’imputato con la meno favorevole formula “perché il fatto non costituisce reato”.

Il sanitario ricorre quindi in cassazione deducendo che il giudice d’appello non aveva tenuto conto di alcune prove decisive (le testimonianze del medico che soccorse la presunta danneggiata, della caposala, dell’infermiera, nonché la relazione del pronto soccorso) e ribadendo il proprio interesse sia morale che giuridico alla più favorevole formula adottata in primo grado, capace di tenerlo indenne da conseguenze in sede civile e disciplinare.

La Suprema Corte, quinta sezione penale, con la recente sentenza 25072/2023, depositata il 09.06.23, accoglie il ricorso e annulla senza rinvio la sentenza impugnata “perché il fatto non sussiste” ritenendo non adeguatamente giustificate le affermazioni del giudice d’appello circa l’esistenza delle dedotte lesioni.

La Cassazione ribadisce che sussiste l’interesse a impugnare la sentenza di proscioglimento "perché il fatto non costituisce reato" al fine di ottenere il proscioglimento con le più favorevoli formule "perché il fatto non sussiste" o "perché l'imputato non ha commesso il fatto". 

Afferma, in particolare, la Suprema Corte che, a parte le conseguenze di natura morale, l'interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p. connettono alla formula invocata dal ricorrente - e alle altre ampiamente liberatorie citate nelle norme appena richiamate - nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare; che la formula "perché il fatto non sussiste" indica la mancanza di uno degli elementi costitutivi di natura oggettiva del reato (la condotta, l'evento o il nesso di causalità), ossia l'esclusione del verificarsi di un fatto storico che rientri nell'ambito di una fattispecie incriminatrice; che, invece, la formula "perché il fatto non costituisce reato” può essere correttamente utilizzata nelle ipotesi in cui, pur essendo presenti gli elementi oggettivi del reato, manchi invece l'elemento soggettivo della colpa o del dolo, ovvero sussista una scriminante, o causa di giustificazione; che, difettando nel caso di specie la prova delle dedotte lesioni personali, l’imputato deve essere assolto con la richiesta formula “perché il fatto non sussiste”.

A cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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