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Ipotesi di truffa e di falso ideologico a carico di un medico ricercatore universitario a tempo pieno

Ipotesi di truffa e di falso ideologico a carico di un medico ricercatore universitario a tempo pieno

A un ricercatore a tempo pieno presso un policlinico universitario viene contestato (capo A) di avere svolto, in violazione della normativa di settore, attività tipiche di libero professionista (incompatibili con il proprio rapporto di lavoro con l'università) presso un centro privato e presso lo studio del padre, così, inducendo in errore il predetto ente pubblico sul rispetto del regime di esclusività, che fa divieto ai ricercatori universitari a tempo pieno di esercitare attività di libero professionista e dell'esclusiva vantata dal policlinico per l'attività prescrittiva relativa ai medicinali a base di ormone somatotropo, in modo da ottenere dall'ente pubblico la retribuzione corrispondente al profilo professionale ricoperto.

Al ricercatore, inoltre, viene contestato (capo B), in concorso con un professore universitario, di avere falsamente attestato che la formulazione dei piani terapeutici e delle relative prescrizioni per i medicinali a base di ormone somatotropo, conformemente alla pertinente normativa regionale, era stata compiuta dal predetto docente, soggetto autorizzato che aveva fornito il suo timbro da apporre alle prescrizioni, nonostante quest'ultimo non avesse svolto in prima persona la menzionata attività, materialmente effettuata dal ricercatore che aveva apposto la sua firma sulle prescrizioni. 

Il Giudice delle Indagini Preliminari (GIP) condanna il ricercatore alla pena ritenuta di giustizia, in relazione ai reati ex artt. 61, n. 9), 81, 640, co. 2, n. 1), c.p. e 110, 81, 479 c.p., ascrittigli rispettivamente ai capi A) e B) dell'imputazione, oltre al risarcimento dei danni derivanti dai reati in favore delle costituite parti civili.

La Corte d’Appello, invece, assolve l'imputato dai suddetti reati con la formula perché il fatto non sussiste, revocando le statuizioni civili, perché in relazione al capo A) ritiene che l’attività da lui svolta non può essere qualificata come libero professionale, trattandosi di collaborazioni saltuarie non incompatibili con il ruolo di ricercatore; che è rilevante nella fattispecie l’esito assolutorio del procedimento disciplinare universitario al quale era stato sottoposto il ricercatore che aveva qualificato l’attività contestata come “consulenza” compatibile con il predetto ruolo; che, comunque, l’imputato non aveva alcun obbligo di comunicare all'Ateneo l’attività svolta.

In ordine, invece, al reato di cui al capo B), la Corte esclude l’esistenza del falso ideologico, tenuto conto anche in questo caso della conclusione in senso favorevole al ricercatore del procedimento disciplinare instaurato a suo carico, posto che il professore universitario si era assunto in via esclusiva la paternità di tutte le prescrizioni relative ai farmaci soggetti alla compilazione di piani terapeutici, mentre all'imputato era stato solo conferito di siglare per suo conto questi piani.

La Corte di Cassazione, sezione quinta penale, con la recente sentenza n. 8914/2024, depositata il giorno 29.02.24, accoglie il ricorso del P.M. osservando che, per quello che interessa in questa sede, ingiustamente e senza una idonea motivazione il giudice d’appello aveva qualificato come compatibili con il ruolo di ricercatore a tempo pieno le attività libero professionali svolte presso il centro privato e lo studio del padre; che il silenzio maliziosamente serbato nei confronti dell’Università sulla predetta attività può essere una condotta rilevante a integrare il requisito degli artifizi e raggiri richiesto dall'art. 640 c.p.; che proprio in base a questo “silenzio espressivo” il ricercatore ha conseguito una retribuzione superiore a quella dovuta dall’ente pubblico; che, ancora, in relazione al falso ideologico, non è stato adeguatamente valutato nella sentenza impugnata il fatto che il ricercatore non aveva il potere di prescrivere farmaci a base di somatotropina e che la legittimità della delega da parte del professore non appare essere stata approfondita alla luce del principio (sancito nella sentenza di legittimità n. 33039/2015) in base al quale il pubblico dipendente ha l'obbligo di astenersi dal porre in essere comportamenti di dubbia legittimità; che comunque il giudice d’appello non si è correttamente confrontato con la motivazione del GIP che aveva sottolineato che il ricercatore, apponendo una sua sigla illeggibile vicino all’indicazione che faceva riferimento al professore, faceva apparire che i piani terapeutici erano riconducibili a quest’ultimo mentre erano stati predisposti e sottoscritti dall’imputato; che, infine, non sono rilevanti le conclusioni del procedimento disciplinare, stante la completa autonomia del procedimento penale da quello disciplinare, sancita dall'art. 653, c.p.p.

Sulla base delle osservazioni svolte la sentenza impugnata è annullata con rinvio ad altra sezione della competente Corte di Appello che, attraverso un nuovo giudizio, deve provvedere a colmare le evidenziate lacune motivazionali, uniformandosi ai principi di diritto richiamati.

a cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano

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