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Utilizzo in sede civile delle consulenze tecniche di parte effettuate in sede penale

Utilizzo in sede civile delle consulenze tecniche di parte effettuate in sede penale

Gli eredi di un soggetto deceduto, secondo la loro tesi, per una reazione allergica al mezzo di contrasto utilizzato nel corso dell’esecuzione di una arteriografia dell’aorta addominale, citano in giudizio il medico che aveva assistito il paziente e la struttura dove era stato ricoverato chiedendo il risarcimento dei danni patiti in seguito alla perdita del loro congiunto.

La domanda viene respinta sia in primo grado che in sede di appello; gli attori ricorrono quindi in cassazione sostenendo, tra l’altro, che ingiustamente i giudici di merito avevano fondato la propria decisione esclusivamente sulle risultanze delle consulenze tecniche redatte su incarico del Pubblico Ministero nel giudizio penale, attribuendo alle stesse efficacia di piena prova nel giudizio civile; che erano state erroneamente respinte le loro istanze probatorie; che, ancora, era stato provato l’aggravamento della situazione patologica del paziente a seguito dell’arteriografia espletata.

La Suprema Corte, terza sezione civile, con la recente sentenza n. 2353/2023, depositata il 25.01.23, respinge il ricorso avanzato dagli attori, così confermando la correttezza della decisione impugnata.

La Cassazione osserva, in linea generale, che nell'ordinamento processuale civile vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché, in assenza di divieti di legge, il giudice civile, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, è legittimato ad utilizzare le prove raccolte in un diverso processo tra le parti o altre parti, sempre che siano acquisite nel giudizio della cui cognizione è investito; che sebbene si tratti di prove raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la loro produzione in giudizio; che, pertanto, la prova atipica può essere liberamente valutata, nel contesto del compendio probatorio acquisito e nel raffronto con le altre risultanze istruttorie, come elemento indiziario idoneo, se grave e preciso, alla dimostrazione di un fatto determinato, poiché anche una sola prova presuntiva semplice può essere sufficiente a fondare il convincimento del giudice, non essendo tale prova inferiore alle altre.

La Suprema Corte, inoltre, sottolinea che le relazioni peritali medico legali disposte dal P.M. in sede penale sono state prodotte dagli stessi attori all’atto della loro costituzione in giudizio, mentre il giudice d’appello ha fondato il proprio convincimento in ordine alla insussistenza del nesso causale tra la condotta addebitata ai convenuti e il decesso del paziente sugli elementi dimostrativi emergenti dall’intero compendio probatorio acquisito nel giudizio civile, esaminando, oltre alle relazioni peritali disposte dal P.M., anche la cartella clinica di ricovero del paziente e le critiche mosse alle predette relazioni dal loro perito di parte; che, d’altra parte, sono state correttamente evidenziate nella sentenza impugnata le ragioni in base alle quali è stata ritenuto superfluo l’espletamento di un ulteriore accertamento tecnico legale.

La Cassazione, infine, osserva che il giudice d’appello è giunto alla motivata conclusione circa l’insussistenza del nesso causale tra la condotta addebitata ai convenuti (esecuzione di arteriografia dell’aorta addominale con tecniche invasive e somministrazione di mezzo di contrasto in paziente allergico) e il decesso del malato, dovuto, invece, a “gravissima e intrattabile insufficienza respiratoria acuta causata da distress respiratorio acuto dell’adulto (ARDS), a sua volta innescata da una polmonite acuta e dal conseguente stato settico”; che conseguentemente gli attori non hanno provato il nesso causale materiale tra la dedotta condotta colposa e l’evento mortale.

a cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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