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Risarcimento danni da mastectomia non correttamente eseguita

Risarcimento danni da mastectomia non correttamente eseguita

Una donna propone un accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi, ex art. 696 bis cpc, per determinare la natura e l'entità delle lesioni conseguenti, secondo la sua prospettazione, a un intervento chirurgico male eseguito di mastectomia per carcinoma mammario, seguito da ricostruzione plastica con protesi e successivo intervento di rimozione chirurgica della protesi infetta.

Rimasta senza esito positivo la sua domanda in sede conciliativa, non avendo la controparte formalizzato alcuna proposta transattiva, la donna agisce in giudizio nei confronti della struttura dove era stato eseguito l’intervento chiedendo il risarcimento di tutti i danni patiti (danno biologico, morale, da invalidità temporanea, oltre al rimborso delle spese mediche e di cura).

Nel costituirsi in giudizio la struttura contesta il nesso causale fra il comportamento dei sanitari e il danno patito, nonché la valenza probatoria della consulenza tecnica espletata in sede di ATP, e infine il quantum del risarcimento.

Il Tribunale, riconosciuta la responsabilità dei medici che avevano assistito la paziente, accoglie parzialmente la domanda e condanna la struttura al pagamento della somma complessiva di circa 45.700,00 euro, oltre i interessi e spese legali.

Il giudice di primo grado non ritiene di procedere alla c.d. “personalizzazione” del danno e, quindi, alla liquidazione di ulteriori somme, in assenza di prova, anche presuntiva, di un ulteriore grado di specifica sofferenza.

Su impugnazione principale della paziente (finalizzata a ottenere un maggiore risarcimento) e incidentale della struttura (diretta a negare la propria responsabilità) il giudice d’appello accoglie in parte la domanda della donna riconoscendo un maggior danno pari complessivamente a circa 47.830,00 euro, mentre rigetta la tesi della struttura.

La Corte d’Appello, peraltro, nega che sia fondata la tesi della paziente sull’esistenza di un maggior danno non patrimoniale, conseguente alla c.d. “personalizzazione” del danno.

Ricorre in cassazione la paziente sostenendo che il giudice d’appello ha errato nel disattendere la pretesa risarcitoria a titolo di personalizzazione del danno, sebbene fosse stata allegata una prova sufficiente del particolare pregiudizio subito.

La Suprema Corte, terza sezione civile, con la recente ordinanza n. 5083/2023, depositata il 17.02.23, respinge il ricorso della paziente, così confermando la correttezza della decisione impugnata.

La Cassazione osserva, in particolare, che la paziente infondatamente sostiene che l’asportazione di uno dei due seni le ha causato una maggiore difficoltà di nascondere la mutilazione subita essendo dotata di seni superiori alla media, con conseguente specifica asimmetria e pregiudizio psicologico notoriamente maggiore rispetto a chi ha seni più piccoli. La Suprema Corte, infatti, sottolinea che un dato psicologico personale si prova con consulenze o anche con prove dirette (testimonianze di parenti, amici, ecc.) e non adducendo fatti ritenuti notori, e aggiunge che la personalizzazione in aumento del danno non patrimoniale presuppone che il danneggiato abbia subito conseguenze anomale e del tutto peculiari (cioè non ipotizzabili per una categoria intera di persone) mentre nella fattispecie si adduce un pregiudizio che potrebbe, in ipotesi, affliggere chiunque abbia quella situazione anatomica.

a cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano e magistrato tributario

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