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Responsabilità civile per suicidio di una paziente ricoverata in ospedale

Responsabilità civile per suicidio di una paziente ricoverata in ospedale

La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la recente ordinanza n. 22901/2025, depositata il giorno 08.08.25, ha respinto il ricorso di un’azienda ospedaliera avverso la sentenza d’appello che l’aveva condannata al risarcimento dei danni in favore dei congiunti di una paziente (affetta da cecità assoluta e da disturbi psichici) suicidatasi mentre era ricoverata in un reparto di degenza ordinaria del nosocomio.

I giudici di merito, per quello che interessa in questa sede, avevano ritenuto che il personale della struttura aveva assunto una posizione di garanzia nei confronti della paziente, ma non aveva impedito il prevedibile ed evitabile evento causato, quindi, dalla condotta colposa dei sanitari.

L’azienda ospedaliera nel suo ricorso aveva dedotto sul punto che la condotta dei medici e del personale infermieristico era stata adeguata; che non si poteva esigere da parte sua l’adozione di comportamenti stringenti che si spingessero fino al punto di costringere i malati psichiatrici “ad una vita forzata, fatta unicamente di costrizioni e di impedimenti” in quanto una soluzione di tale genere, estrema, sarebbe “contro lo spirito della buona clinica”; che la Corte d'appello, per constatare la correttezza del comportamento tenuto dai suoi dipendenti, avrebbe dovuto prendere in esame:

a) la relazione del direttore della Divisione di Chirurgia Generale, da cui emergeva che la paziente era stata ricoverata nel reparto di degenza ordinaria per le sue gravi condizioni di salute provocate dall’ingestione della candeggina, che era stato chiesto un consulto psichiatrico, che durante le ore notturne era stata assistita con continuità e adoperando la massima sorveglianza possibile;

b) la cartella clinica ove erano stati annotati i monitoraggi costantemente effettuati durante le ore notturne;

c) la consulenza del medico legale che aveva rilevato l’osservanza delle linee guida al fine di garantire l’eventuale intervento in funzione di possibili lesioni secondarie all’ingestione di caustici;

d) l’emissione da parte del GIP di un provvedimento di archiviazione, dopo le indagini eseguite dalla Procura della Repubblica, che aveva aperto un fascicolo contro ignoti. 

La Suprema Corte ha affermato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, il giudice d’appello aveva preso in debita considerazione la cartella clinica, il provvedimento di archiviazione, la relazione a firma del Direttore della Divisione di chirurgia generale, (sulla scorta delle quali la ricorrente, allora appellante incidentale, si era doluta del fatto che il Tribunale l’avesse ritenuta responsabile di non avere adottato gli accorgimenti opportuni e necessari per impedire l’evento) e alla luce di questi elementi aveva ritenuto infondate le censure di erroneità mosse alla sentenza impugnata; che, quindi, il motivo in oggetto non è ammissibile perché non indica “in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dalle risultanze probatorie” e si limita a criticare la motivazione mediante “la mera ed apodittica contrapposizione di una difforme interpretazione degli accertamenti fattuali rispetto a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata”.

A cura di Sergio Fucci - Giurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano

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