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Un medico agisce nei confronti di una casa di cura polispecialistica per ottenere l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro part time, con conseguente condanna di controparte alle relative differenze retributive e alla regolarizzazione della posizione previdenziale. La domanda del sanitario viene respinta in primo grado, ma accolta in appello.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la recente sentenza n. 4096/2016, depositata il 02/03/16, ha respinto il ricorso avanzato dalla casa di cura che aveva sostenuto che le prestazioni del medico erano state svolte e correttamente retribuite a titolo di lavoro autonomo e che, quindi, nulla spettava al predetto.
La Suprema Corte nel motivare la sua decisione ha sottolineato che il giudice d’appello aveva correttamente valutato il materiale probatorio acquisito agli atti dal quale emergeva l’esistenza di una collaborazione continuativa e duratura con stabile inserimento del medico nell’organizzazione aziendale in quanto il sanitario era inserito nei turni di guardia medica e nell’attività ambulatoriale, prestata con apparecchiature e strumenti della casa di cura.
Il medico, inoltre, era assoggettato a specifiche disposizioni nello svolgimento delle sue mansioni, dovendo consultare il primario o altro medico del reparto sulle modalità di intervento, nei casi non urgenti e non banalmente di routine. In sostanza il sanitario non aveva la piena responsabilità delle pazienti affidate alle sue cure. In questo complessivo quadro probatorio ha perso rilevanza la circostanza della non esclusività della collaborazione con la casa di cura, unico indice - rimasto, peraltro, isolato - della dedotta autonomia del rapporto.